Dopo mesi di rumorosissimo silenzio, a poche ore dall’apertura dei seggi, il dibattito sui referendum è finalmente entrato nel vivo. Il loro contenuto pensiamo sia ormai noto e un articolo che lo spieghi può apparire superfluo (qui un link per chi vuole comunque maggiori spiegazioni). Vogliamo però insistere su una cosa, e cioè sull’importanza politica di questa tornata elettorale e sul motivo per cui tutte e tutti dobbiamo sentirci in un modo o nell’altro coinvolti.
In tre delle cinque schede l’elettore dovrà esprimersi sull’abolizione di alcuni pilastri del famigerato e tanto vituperato (curiosamente anche da chi oggi invita all’astensione, ndr) Jobs Act di renziana memoria: il licenziamento senza giusta causa nelle aziende con meno di 15 dipendenti, il limite di 6 mesi all’indennità di licenziamento e i contratti a termine senza causale.
Il quarto quesito (scheda grigia) è incentrato sulla sicurezza e mira, invece, ad abolire la norma del Testo Unico del 2008 che impedisce al lavoratore di chiedere il risarcimento per l’infortunio subito all’azienda appaltante, la cosiddetta responsabilità in solido.
L’ultimo quesito (scheda gialla) è l’unico non riguardante direttamente il mondo del lavoro – promosso infatti inizialmente non dalla CGIL, che lo sta però attivamente sostenendo – e punta a ridurre gli anni consecutivi di regolare residenza in Italia da 10 a 5 anni per poter chiedere di ottenere la cittadinanza.
E così il contenuto dei quesiti è presto detto. Eppure, qualcosa in più riteniamo valga la pena di dirla.
Si è fatto un gran parlare in queste settimane del non raggiungimento del quorum come di una prospettiva ineluttabile, quasi una legge non scritta insita nella volontà stessa di qualche sadico legislatore determinato nel frustrare le legittime, ma velleitarie, aspirazioni di cambiamento dell’elettorato. Nulla di più falso: possiamo raggiungere il quorum.
La storia dello strumento referendario in Italia è tutt’altro che fallimentare e alcuni dei passaggi più importanti, finanche gloriosi della cosiddetta Prima Repubblica sono stati sanciti dall’apposizione di milioni di “ics” su altrettante numerose schede. L’istituto del referendum abrogativo ha proiettato il nostro Paese nella modernità, come nel caso dei referendum su divorzio e aborto, e ha segnato svolte politiche determinanti negli anni a venire, come nel caso di acqua pubblica e nucleare (due volte).
Proprio sul caso del 2011 vale forse la pena di soffermarsi un attimo. Politicamente parliamo davvero di ere geologiche fa, un mondo che ancora non aveva conosciuto buona parte di quegli stravolgimenti che oggi occupano costantemente le prime pagine dei giornali, i dibattiti televisivi e le bacheche dei social (già allora presenti ma non ancora così capillari e determinanti come ora). Al netto di ciò, però, non mancano alcuni punti in comune: un governo di destra alla spasmodica ricerca di riaffermare se stesso e delle opposizioni fortemente disunite, ancor più dell’attuale campo largo che, se non altro, tende a presentarsi come un’idea di coalizione (si ricordi che nel 2014 il PD corse solo con SEL, mentre il M5S si apprestava alla sua prima, travolgente, esperienza elettorale).
Fu forse la forza della campagna del Centrosinistra a trainare l’affluenza sopra la soglia del 50%? Un’informazione più imparziale veicolata da media non ancora così smaccatamente schierati? Difficile. Più probabilmente fu, invece, la forza di una campagna dal basso, la voglia dell’elettorato di dire la sua su temi sentiti come fortemente vicini alla quotidianità della propria vita e il desiderio di contribuire in maniera decisiva ad un cambiamento di rotta alla guida del Paese: un segnale chiaro ad una maggioranza ormai avvitata sulle proprie contraddizioni e incapace di affrontare la crisi.
Oggi, se possibile, i temi sono ancora più concreti, ancora più calati nella vita lavorativa di milioni di noi. L’eventuale successo del referendum non potrà che essere determinato dalla voglia di protagonismo dell’elettorato, dal voler dimostrare davvero che siamo ancora in grado di percepire il nostro ruolo, in una democrazia che non sia una semplice e sterile definizione di meccanismi elettorali utili a legittimare la propria classe dirigente.
Lo stesso fatto che quattro quesiti su cinque siano stati proposti dal sindacato (è la seconda volta che la CGIL sceglie questo strumento nella sua lunga storia) testimonia la necessità di leggere questa tornata elettorale secondo un paradigma diverso da quello delle altre elezioni, come una contrapposizione tra tifoserie tanto pubblicizzata da certi media. Sono i corpi intermedi, intesi come collettività attiva di cittadini e cittadine, di lavoratrici e di lavoratori, ad aver chiesto l’imminente consultazione. Sarà la collettività nel suo complesso a determinarne l’eventuale successo. Saremo noi a decidere.
Fuor di retorica, si tratta di una grande possibilità per aprire una nuova stagione di partecipazione democratica, per ridefinire il nostro ruolo di cittadini realmente detentori del potere sovrano, e per costruire una società più giusta in cui il lavoro, lavoratrici e lavoratori, sia uno dei cardini su cui fondare la nostra Repubblica.
Pressioni? Forse giusto un po’. Buon voto!
Pietro Scalzo, Città in Comune